martedì 6 luglio 2010

Eminem - Recovery



Il rapper bianco è tornato. Il 22 giugno ha visto la luce Recovery, il settimo album di Marshall Bruce Mathers III, al secolo Eminem.

E’ passato un anno dall’ultimo disco (Relapse) e Slim Shady ci aveva informato che il seguito sarebbe stato Relapse 2, che doveva contenere le tracce escluse dalle sessioni dell’ultimo album: così non è stato.

Per sua stessa ammissione, la voglia di ripulirsi e di essere più un padre che un gangsta, non coincidevano con le tematiche di quelle tracce e da qui l’idea di scrivere nuovi pezzi ad hoc.

L’album è stato largamente anticipato con l’uscita, il 29 aprile, di Not Afraid il primo singolo: il contenuto è da subito chiaro, ora esiste un nuovo Slim Shady che vuole prendere le distanze da quello vecchio, ammettendo anche il fallimento dell’ultimo album “And to the fans, I’ll never let you down again, I’m back/I promise to never go back on that promise, in fact/Let’s be honest, that last Relapse CD was eh/Perhaps I ran them accents into the ground/Relax, I ain’t going back to that now”.

Il disco, composto da 16 tracce (più una nascosta), dura 77 minuti e si apre con Cold Wind Blows, nella quale il rapper si ripresenta, per poi dare prova, in Talkin’ 2 Myself, di essere ancora il miglior rapper in circolazione: le rime scorrono mentre le parole si mescolano creando una sonorità molto fluida, il testo dà ancora testimonianza del cambiamento It’s different them last two albums didn’t count/Encore I was on drugs, Relapse I was flushing em out/I’ve come up to make it up to you no more fucking around/I’ve got something to prove to fans I feel like I let em down/So please accept my apology I finally feel like I’m back to normal”

On fire segue la falsa riga della traccia precedente, usando rime più velenose; Pink, non al massimo della forma, apre il brano successivo (Won’t back down) in cui a metà traccia il volume si abbassa del tutto per poi rialzarsi, mentre Eminem rappa “Tryin’ to turn me down, that’s why I’m talkin’ to you/Turn me up, what are you insane?”. La flessione del disco continua con W.T.P. (White Trash Party), in cui Eminem sembra essere tornato quello di Infinite ed il brano, tema incentrato sulla sregolatezza e sull’ubriachezza, si lascia scappare versi più sorpassati che sfrontati “I don’t need a tank top to be a wife beater.”.

Going through changes usa come ritornello il campionamento del brano Changes dei Black Sabbath: la voce di Ozzy Osbourne fa da sfondo ad un’altra canzone dedicata al cambiamento interno di Eminem “Don’t know what I’m going through, but I just keep on going through changes”. Dopo Not Afraid e Seduction, che narra le abilità sessuali di Eminem in relazione alle sue abilità liriche, arriva No Love che si apre con l’ennesimo campionamento, questa volta si tratta nientemeno che della hit anni ‘90 What is love di Haddaway: forse fin troppo anche per Slim Shady che spreca così un buon testo rivolto a chi l’ha lasciato solo nel suo periodo buio “I’m alive again, more alive than I have been in my whole entire life… They call me a freak ’cause I like to spit on these pussys before I eat ‘em/And get these wack cocksuckers off the stage, where’s Kanye when you need him?

Le successive tracce ritornano sul main theme del disco fino ad Almost Famous, dove i primi due versi fanno capire il tipo di brano “I stuck my dick in this game like a rapist, they call me Slim Roethlisberger/I go berserker than a fed up post office worker”. Altro duetto discutibile apre Love the way you lie: la voce di Rihanna sfianca il rap di Eminem, rendendolo commerciale tanto da ipotizzare una bella uscita come singolo. L’ultima traccia, You’re never over chiude con il disco omaggiando il ricordo di Proof, suo amico di vecchia data e membro della D12, ucciso con un colpo di pistola durante una rissa.

I duetti, più che discutibili, servono a tenere ai suoi piedi il mercato internazionale, ma sono forzati e musicalmente incomprensibili: bisogna anche capire se il nuovo Slim Shady è come dimostra di essere in Recovery, a quel punto ci mancherà di certo quel tipo di ironia che ha reso Eminen quello che è. Come ha sempre dimostrato, di talento il rapper bianco ne ha da vendere: quando parte con le rime, è insuperabile; è una mitraglia, incrocia le rime, le inverte, va a tempo e a controtempo, il flow è sensazionale: tecnicamente è perfetto.

La bravura dell’artista è evidente: Encore e poi Relapse sono stati dei sbagli nella carriera del rapper, ma i testi del miglior Recovery non sono ancora all’altezza di The Marshall Mathers LP o di The Eminem Show: sicuramente la via del recupero è stata imboccata bene, ora sta nel seguirla e rimanere nella giusta carreggiata.

(Aftermath Entertainment\Interscope Records\Shady Records), 2010, Rap

Tracce:

1. Cold Wind Blows
2. Talkin’ 2 Myself (feat. Kobe)
3. On Fire
4. Won’t Back Down (feat. Pink)
5. W.T.P.
6. Going Through Changes
7. Not Afraid
8. Seduction
9. No Love (feat. Lil Wayne)
10. Space Bound
11. Cinderella Man
12. 25 to Life
13. So Bad
14. Almost Famous
15. Love the Way You Lie (feat. Rihanna)
16. You’re Never Over
17. Here We Go (hidden track)

The Steve Miller Band - Bingo!


Il tanto desiderato ritorno alle origini di Steve Miller si è realizzato. Il 15 giugno è uscito Bingo!, il nuovo album della Steve Miller Band, che non registrava da 17 anni: era il 1993 quando diedero alle stampe Wide River, ultimo, di una crisi che aveva colto la Steve Miller Band tra gli anni ’80 e ’90, con considerevoli cambi di formazione e conseguenti cambi di genere musicale. Il disco è il primo di due album tratti dalle sessioni registrate allo Skywalker Ranch (lo studio di produzione del regista George Lucas) tra il 2008 e il 2009.

La carriera musicale di Miller era iniziata a metà degli anni ’60, dove insieme a Barry Goldberg muoveva i primi passi nella scena blues di Chicago, poi abbandonata per il sole californiano e per una serie di dischi che con il blues avevano sempre meno a che fare: Bingo! rappresenta un sorta di recupero stilistico di quegli anni e oggi come allora il “gangster” cavalca pezzi unici del rhytm and blues con una freschezza vocale e una brillantezza nel suonare la chitarra rimasti intatti dopo quasi 50 anni di carriera.

L’album, composto da 10 tracce (14 nell’Edizione Limitata), non contiene pezzi originali: le cover di B.B. King, Jimmy Reed, T-Bone Walker e Jimmie Vaughan sono pane per i denti di Steve Miller che si avvale di un nuovo collaboratore, Sonny Charles, voce storica del rhytm’n’blues, che con i tempi musicali di Miller sembra trovarsi assolutamente a proprio agio: l’intero album è un viaggio attraverso la vivacità e l’energia, ma al contempo la ruvidità del Louisiana-style blues.

Altro sessionman dell’album, che sembra nato in sintonia con Miller è Michael Carabello (percussionista e membro fondatore della band di Santana) che impreziosisce con sapori latineggianti tracce come All your love (I miss loving) coadiuvato dall’asso dei tamburi Adrian Areas. In Rock me baby e Sweet Soul Vibe si raggiunge la perfezione sonora dell’album, dove Miller alterna i propri assoli di chitarra con quelli altrettanto grandiosi di Joe Satriani: a completare l’anima dell’album c’è, per l’ultima volta, la fantastica armonica di Norton Buffalo: queste tracce sono state il canto del cigno del bravo armonista, scomparso ad ottobre del 2009 e per 33 anni armonica e voce nella band.

Questo, definito dallo stesso Miller, “il progetto di una vita che si realizza”, va a classificarsi tra i migliori dischi della Steve Miller Band insieme ad altri capolavori quali Children Of The Future, The Joker o Sailor.

Ultima osservazione da fare è sulla copertina dell’album, capolavoro anch’essa, opera di Storm Thorgerson, già ideatore grafico per i Led Zeppelin e i Pink Floyd (ricorda quella di Delicate Sound of Thunder, live album dei Pink Floyd). Oltre l’orecchio anche l’occhio vuole la sua parte.

(Roadrunner Records/Space Cowboy Records), 2010, Rock Blues

Tracce:

1. Hey Yeah
2. Who’s Been Talkin’?
3. Don’t Cha Know
4. Rock Me Baby
5. Tramp (song)
6. Sweet Soul Vibe
7. Come On (Let the Good Times Roll)
8. All Your Love (I Miss Loving)
9. You Got Me Dizzy
10. Ooh Poo Pah Doo

martedì 8 giugno 2010

La Standard Music


Permettetemi di uscire dai canoni della recensione standard o almeno del genere a cui vi ho abituato fin’ora. E’ una libertà che mi sento in diritto di prendere per giubilo. Proprio quel iubelo che a Jacopone da Todi dava il diritto di cantare d’amore. Si sono riuniti i Litfiba: Piero Pelù e Ghigo sono tornati a calcare le scene; le schitarrate e gli urli da zoo si sono ricomposti sul palco, donando nuova vita al sound che ha caratterizzato la scena musicale italiana degli anni ’90 e per l’occasione hanno architettato una tournée che li vedrà in giro per l’Italia durante l’estate (qui le date dei concerti) e la pubblicazione, il primo giugno, di un doppio album live, che nella settimana di uscita si è posizionato al primo posto nelle classifiche di vendite, contenente anche due inediti Sole Nero (singolo di lancio) e Barcollo.

Non sono un grande fan dei Litfiba ma la provenienza del mio iubelo nasce dall’uscita (o meglio dal ritorno) sulla scena musicale italiana di chi ha fatto musica facendo a spintoni fra i tanti, prendendo delle gran belle botte e rialzandosi sempre, dimostrando di essere i migliori, cosa, che si presuppone sia alla base della civiltà moderna: la cosiddetta meritocrazia.

Ora, questo tipo di principio nella scena musicale italiana (e anche in altri ambiti) è spesso ignorato: chi ha soldi esce su piazza nazionale e (raramente) spopola. I nuovi talenti sono sempre di meno, nonostante l’ingorgo, che ogni giorno si palesa sui nostri piccoli schermi, di Talent Show. Lo scopo di questi programmi televisivi è quello di trovare (obbligatoriamente!) una nuova superstar, nei quali, cantanti al tramonto della carriera, fantomatici esperti di musica e personaggi dal sesso indefinito riversano sui concorrenti le loro opinioni, o piuttosto quelle della maschera da loro interpretata. Poi c’è la gran giuria, di adolescenti che votano da casa con il telefonino, appena sazio dei soldi di papà: sta a loro decidere chi sarà la nuova stella del firmamento della musica. Breve premessa. La scena musicale mondiale degli ultimi quindici anni ha sfornato, tranne in rari casi, musica pop ed artisti ad un ritmo incessante, finendo nel creare uno standard che pochi hanno il coraggio di sfatare, causa insuccesso completo o tournée in cantine.

L’artista che esce dai Talent Show oggi deve avere: voce più simile possibile all’ultima popstar internazionale, capelli dalle forme picassiane, pianto cronico e aspetto da pornostar o da teenager americana per lei e per lui lineamenti più ermafrodita possibili. L’obiettivo di questa standardizzazione musicale è quello di puntare più sull’aspetto e sulla vita privata che sulle qualità da loro dimostrate, oltretutto le due cose, quando per uno strano caso coincidono (parlo di Susan Boyle la quarantottenne scozzese con una voce magnifica da soprano e una vita da brutta zitella), la giuria decide di non farla vincere: lei si è poi ripresa il posto che meritava esibendosi in ogni dove ed avendo un enorme successo internazionale.

E’ per questi artisti o il ritorno di chi faceva parte di un’altra epoca musicale, nella quale il rock, il pop, il metal, il blues convivevano senza bisogno di prevalere l’una sull’altra, che il mio iubelo, dolce gaudio,/ch’è’ drento ne la mente!/Lo cor deventa savio,/celar so convenente;/non pò esser sofferente/che non faccia clamore.

lunedì 31 maggio 2010

Eric Bibb – Booker’s Guitar



Se può un musicista ispirare un album intero di un altro artista, è questo il caso. Booker’s Guitar, uscito a fine aprile rappresenta l’ingresso ufficiale nei “Delta Mississipi Blues Singer” di Eric Bibb. Il bluesman di New York, con una famiglia di artisti alle spalle (lo zio, John Aaron Lewis, pianista e compositore, faceva parte del Modern Jazz Quartet e tra gli amici di famiglia figuravano Bob Dylan, Paul Robeson e Pete Seegers) da prova di quanto ha appreso durante la sua carriera suonando con chi ha tenuto vivo ed incontaminato il Delta Blues dal mondo pop quali Taj Mahal, Odetta, Charlie Musselwhite e Guy Davis.

Prima di parlare dell’album è giusta una divagazione su chi, quest’album, l’ha ispirato. Booker T. Washington White, detto Bukka White, è stato, insieme a Robert Johnson e John Lee Hooker, il capostipite del Delta Blues, genere ben definito di blues nato nella regione del delta del Mississipi, in cui chitarra e armonica fanno da padroni e che ha dato vita al modern jazz ed al blues odierno.

La nascita dell’album è legata ad un aneddoto molto particolare: dopo un concerto in un hotel di Londra, Bibb venne avvicinato da un fan, il quale gli mostrò una Resophonic National, chitarra del 1930 appartenuta a Booker White, la visione è folgorante per Bibb, che durante la notte scrive Booker’s Guitar, title track dell’album, registrata poi con la stessa chitarra: l’effetto è esplosivo, la voce di Bibb accompagna, in una sorta di Talkin’ Blues, la descrizione della famigerata chitarra, “…Booker’s guitar’s got a story to tell…”. Il proseguio dell’album si compone di tracce in cui la chitarra di Bibb arpeggia in un blues da anni ‘20 sempre definito e ben preciso. All’improvviso arriva Flood Water, canzone dedicata alla devastante inondazione del Mississipi del 1926, ma il riferimento all’uragano Katrina è palese. La canzone è aiutata dall’armonica di Grant Dermody che, apre e ridona quella dolcezza blues ad una traccia straziante.

“Train from Aberdeen” è stata ispirata dalla città natale di Bukka. Le uniche canzoni non originali sono “Wayfaring stranger” e “Nobody’s fault to me”, due classici blues eseguiti da centinaia di artisti (Led Zeppelin, Johnny Cash, Joan Baez..); la seconda, in particolare, eseguita a cappella con l’aiuto della sola armonica diventa forse la migliore versione che ci sia in giro. “Turning pages” è autobiografica e parla dell’amore di Eric per la lettura; la penultima canzone “Tell Riley”, scritta con il cugino di Bukka White, nientemeno che B.B. King (a cui è stato insegnato a suonare la chitarra dallo stesso Booker), accompagnata dalla solita armonica di Grant è un esempio dell’agilità vocale di Bibb nella sua interpretazione del Delta Blues. Il disco si chiude con “A-Z Blues” un blues dedicato a tutti i bluesman itineranti che definiscono la loro città la propria casa.

Nel complesso, i suoni dell’album che non si sentivano dagli anni ‘20-’30 riecheggiano con una semplicità non indifferente: l’armonica di Grant Dermody aiuta e non poco a raggiungere questo risultato. Un album veramente bello, nato oltre che dalla genialità di un artista, dallo studio ossessivo di un gruppo di bluesman che hanno fatto la storia della musica.

(Telarc), 2010, Blues

Tracce:

1. Booker’s Guitar
2. With my make I am one
3. Flood water
4. Walkin’ blues again
5. Sunrise blues
6. Wayfaring stranger
7. Train from Aberdeen
8. New home
9. Nobody’s Fault But Mine
10. One Soul To Save
11. Rocking Chair
12. Turning Pages
13. A Good Woman
14. Tell Riley
15. A – Z Blues

PFM – A.D. 2010 – La Buona Novella (Opera Apocrifa)

Era il 1970 quando nei negozi usciva La Buona Novella, primo concept album ed assoluto capolavoro di Fabrizio De André ispirato ai Vangeli Apocrifi. Quarant’anni dopo i PFM, che collaborarono con il cantautore genovese nella stesura delle musiche dello stesso album (a quel tempo erano conosciuti come I Quelli), ripresentano, grazie a nuovi arrangiamenti ed il contributo di musica inedita scritta appositamente, un album storico della musica italiana.

A.D. 2010 – La Buona Novella – Opera Apocrifa, uscito il 23 aprile su CD e doppio LP, oltre ad essere l’ennesimo omaggio a Fabrizio De André, mostra i PFM in piena forma, con quell’energia e quella musicalità progressive/rock che si erano già sposati perfettamente con la poesia di De André nel 1979, quando, dalla loro collaborazione nacquero due album (In concerto Vol.1 e Vol.2) diventati un simbolo di suggestiva musicalità e rigore artistico.

Nel’album non ci sono solo canzoni rilette, ma la fantasia artistica e la bravura di Di Cioccio e compagni rendono l’opera un nuovo concept album in cui i versi di Faber sono fedeli al concetto originale, mentre la musica si trasfigura in una narrazione armonica che conclude il percorso iniziato nel 1979.

La vera rivoluzione musicale di quest’album, per l’occasione ampliato di 30 minuti, sta nella singolarità di ogni brano che ha in sé un mondo di nuovi suoni, ballate, assoli corali e voli solistici che rendono il dramma umano il tema centrale del disco; l’immagine di Maria, offerta in sposa nel tempio nel brano L’infanzia di Maria, è sottolineata da una vibrante danza della tentazione, che evidenzia la curiosità dei pretendenti e la forte emotività. I cinque quadri nella Via della Croce tratteggiano i profili di sofferenza dei protagonisti con suggestioni sonore, evidenziando il compiacimento della Morte, la ferocia dei Romani, la pavidità degli Apostoli, il dolore palpabile delle madri dei tre crocefissi e il riscatto dei ladroni. L’album continua con esecuzioni tese a liberare musica e suoni, fino al grande finale del Laudate Hominem, con l’inedito Ode all’uomo inno solenne e terrigno dove la figura di Gesù diventa un compagno di strada dell’uomo, un fratello da imitare.

Le parole (immutate dall’originale) sono scandite con forza ritmica, quasi da voler sovrastare l’eco della musica, per renderle vere protagoniste dell’album in questo connubio fra rock e poesia che ha pochi simili.

Per concludere, sono già comparsi sui primi blog anti-blasfemi critiche al rifacimento dell’album per il tema trattato, per la troppa terrenità di Gesù, per l’assoluta non autenticità dei Vangeli Apocrifi. La scia di critiche che il disco si porta dietro dalla sua pubblicazione fu già chiarita dallo stesso De André in un intervista del settembre 1970: “Opera dissacratoria?Demistificante piuttosto. Ho cercato più di ogni altra cosa di umanizzare i personaggi, di mostrare come Maria sotto la croce è anzitutto una madre, con tutta l’ossessività che hanno le madri…E Gesù Cristo non è solo, nella scena culminante della passione, c’è il dolore umano con tutte le sue sfumature: le donne del popolo che si lasciano andare ai lamenti, le madri dei ladroni che si accaniscono contro Maria perché a loro non è concessa la consolazione di sapere che i loro figli risorgeranno”.

(Aerostella/EDEL), 2010, Progressive Rock

Tracce:

1. Universo e terra (Preludio)
2. L’infanzia di Maria (incluso La Tentazione)
3. Il ritorno di Giuseppe (incluso Il respiro del deserto)
4. Il sogno di Maria
5. Ave Maria (incluso Aria per Maria)
6. Maria nella bottega del falegname (incluso Rumori di bottega)
7. Via della Croce (incluso Scintille di pena)
8. Tre Madri (incluso Canto delle madri)
9. Il testamento di Tito
10. Laudate Hominem (incluso Ode all’uomo)

Jimi Hendrix - Valleys of Neptune


Sono tornati i riff più elettrizzanti del mondo della musica: Hendrix is alive!

Una serie di album postumi sta invadendo il mercato discografico, (la volta scorsa abbiamo parlato di Johnny Cash) ed ora è toccato ad uno dei personaggi più sfruttati da questo punto di vista, forse secondo solo ad Elvis, considerato che in vita è riuscito ad incidere tre soli album (Are You Experienced?, Axis: Bold As Love, Electric Ladyland) e dopo 40 anni dalla sua morte (settembre 1970), se ne trovano circa una trentina.

L’album, uscito il 9 marzo, si frappone tra l’ultimo disco della Jimi Hendrix Experience e quello che sarà considerato il quarto album (First Rays of the New Rising Sun) registrato nel 1970, pubblicato però, solo nel 1997.

Valleys of Neptune venne registrato tra l’ottobre 1969 e il maggio del 1970 negli studi Record Plant di New York ed è composto da 12 tracce, non del tutto inedite (alcune erano contenute in bootleg apparsi negli anni ’90); già dal primo ascolto il disco non trasmette quella continuità musicale che Hendrix amava dare ai suoi album: risulta confusionario, un taglia e cuci di pezzi singolarmente fantastici, ma che nel complesso non sono il racconto compiuto e organico di un album in piena regola; il periodo storico può creare un alibi, quel frenetico e confuso 1969, il cambio di formazione della Jimi Hendrix Experience (prima con Noel Redding, poi con Billy Cox al basso) ma nel complesso il disco resta sicuramente di non facile ascolto.

L’album si apre con Stone Free, riveduta, ma non troppo diversa dalla versione definitiva; la title track è un inedito (anche se un estratto di un demo con Hendrix e la sola presenza di Mitchell alla batteria e del percussionista Juma Sultan era stata pubblicata nel 1990); l’impennata del disco si ha con Bleeding Heart, graffiante rilettura dell’originale blues di Elmore James ed in Hear my train a comin’, sofferta e ossessiva con le sei corde urlanti alla maniera di Voodoo Child.

Mr. Bad Luck con i suoi riff pre Led Zeppelin e Deep Purple, verrà poi sviluppata in Look Over Yonder pubblicata in South Saturn Delta. Vera chicca dell’album è Sunshine of your love, cover dei Cream e pezzo che Hendrix amava particolarmente eseguire dal vivo, quì è presente per la prima volta in versione strumentale; l’ascolto prosegue tra Lover Man (canzone uscita nelle più svariate versioni), Ships Passing Through the Night (prima delle tre canzoni inedite), un rock blues potente grazie anche all’effetto Leslie con cui viene trattata la Stratocaster di Hendrix; Fire e Red House hanno parecchi tratti in comune con le versioni definitive. Chiudono il disco Lullabay for the Summer e Crying Blue Rain, entrambe inedite e ancora in fase embrionale.

Come già detto questo disco non avvicinerà di certo le masse alla scoperta del re della chitarra, troppo rude e più vicino agli audiofili di materia hendrixiana, ma c’è ancora tempo per l’uscita di un album che in occasione dell’anniversario della sua morte possa far gridare che Hendrix non se n’è mai andato.

(Experience Hendrix/Sony Music) 2010, Rock

Tracce:

1. Stone free
2. Valleys of Neptune
3. Bleeding Heart
4. Hear my train a comin’
5. Mr. Bad Luck
6. Sunshine of Your Love (instrumental)
7. Lover Man
8. Ships Passing Through the Night
9. Fire
10. Red House
11. Lullaby for the Summer (instrumental)
12. Crying Blue Rain

Johnny Cash - American VI: Ain't No Grave


Sono passati quattro anni dall’ultimo disco di inediti postumi prodotti dalla American Recordings e “The Man in Black” è tornato più potente che mai.

Dieci tracce che fanno di questo American VI: Ain’t no grave un’altra perla (di certo non la più preziosa) che si va ad incastonare nella meravigliosa discografia di Johnny Cash e della quale sembra essere anche l’ultima, considerando che questi trentadue minuti sono gli ultimi che Cash registrò prima della sua morte avvenuta nel Settembre del 2003. L’album è uscito il 26 Febbraio (data del 78° compleanno di Cash) e comprende cover di Sheryl Crow (Redemption Day), di Kris Kristofferson (For the Good Times), Ed McCurdy (Last Night I had a strangest dream) e di Bob Nolan (Cool Water). Tra le tracce spiccano anche l’unico inedito I Corinthians 15:55 e la title track (Ain’t No Grave) pezzo di pregevole fattura con i suoi rintocchi di un folk-blues gravoso ed un messaggio ben chiaro “…Well, there ain’t no grave/ Can hold my body down…”

Il disco non è l’opera migliore che nel corso degli anni Cash e il produttore Rick Rubin ci hanno regalato, ma comprende comunque pezzi di valore assoluto nei quali la forza, la speranza e la fede, il credo nel country portano a cosiderare le tracce un’appendice dell’ampia discografia (confidando nel risparmio di azioni di reiterato sfruttamento postumo) di chi ci saluta con un addio toccante, creato con quell’onestà e semplicità interpretativa che lo hanno portato ad essere, una delle cose più belle e sincere nella musica degli ultimi anni “…I have been around this land/ just doing the best I can…”

Le tracce, come il suo predecessore American V: A Hundred Highways, sono centrate sul tema della morte e della redenzione, dopotutto l’album è nato dopo la morte dell’amatissima moglie June Carter e in questi soggetti si rispecchia la malinconia, la voce più rotta, graffiata, ma sempre più incisiva e il desiderio di lasciare il suo testamento “…Don’t look so sad/ I know it’s over…” fino a quando come dice nell’ultima canzone “…until we meet again…”

(American Recordings/ Lost Highway) 2010, Country

Tracce:

1. Ain’t No Grave (Gonna Hold This Body Down)
2. Redemption Day
3. For the Good Times
4 . I Corinthians 15:55
5. Can’t Help but Wonder Where I’m Bound
6. A Satisfied Mind
7. I Don’t Hurt Anymore
8. Cool Water
9. Last Night I Had the Strangest Dream
10. Aloha Oe

Presentazione