Permettetemi di uscire dai canoni della recensione standard o almeno del genere a cui vi ho abituato fin’ora. E’ una libertà che mi sento in diritto di prendere per giubilo. Proprio quel iubelo che a Jacopone da Todi dava il diritto di cantare d’amore. Si sono riuniti i Litfiba: Piero Pelù e Ghigo sono tornati a calcare le scene; le schitarrate e gli urli da zoo si sono ricomposti sul palco, donando nuova vita al sound che ha caratterizzato la scena musicale italiana degli anni ’90 e per l’occasione hanno architettato una tournée che li vedrà in giro per l’Italia durante l’estate (qui le date dei concerti) e la pubblicazione, il primo giugno, di un doppio album live, che nella settimana di uscita si è posizionato al primo posto nelle classifiche di vendite, contenente anche due inediti Sole Nero (singolo di lancio) e Barcollo.
Non sono un grande fan dei Litfiba ma la provenienza del mio iubelo nasce dall’uscita (o meglio dal ritorno) sulla scena musicale italiana di chi ha fatto musica facendo a spintoni fra i tanti, prendendo delle gran belle botte e rialzandosi sempre, dimostrando di essere i migliori, cosa, che si presuppone sia alla base della civiltà moderna: la cosiddetta meritocrazia.
Ora, questo tipo di principio nella scena musicale italiana (e anche in altri ambiti) è spesso ignorato: chi ha soldi esce su piazza nazionale e (raramente) spopola. I nuovi talenti sono sempre di meno, nonostante l’ingorgo, che ogni giorno si palesa sui nostri piccoli schermi, di Talent Show. Lo scopo di questi programmi televisivi è quello di trovare (obbligatoriamente!) una nuova superstar, nei quali, cantanti al tramonto della carriera, fantomatici esperti di musica e personaggi dal sesso indefinito riversano sui concorrenti le loro opinioni, o piuttosto quelle della maschera da loro interpretata. Poi c’è la gran giuria, di adolescenti che votano da casa con il telefonino, appena sazio dei soldi di papà: sta a loro decidere chi sarà la nuova stella del firmamento della musica. Breve premessa. La scena musicale mondiale degli ultimi quindici anni ha sfornato, tranne in rari casi, musica pop ed artisti ad un ritmo incessante, finendo nel creare uno standard che pochi hanno il coraggio di sfatare, causa insuccesso completo o tournée in cantine.
L’artista che esce dai Talent Show oggi deve avere: voce più simile possibile all’ultima popstar internazionale, capelli dalle forme picassiane, pianto cronico e aspetto da pornostar o da teenager americana per lei e per lui lineamenti più ermafrodita possibili. L’obiettivo di questa standardizzazione musicale è quello di puntare più sull’aspetto e sulla vita privata che sulle qualità da loro dimostrate, oltretutto le due cose, quando per uno strano caso coincidono (parlo di Susan Boyle la quarantottenne scozzese con una voce magnifica da soprano e una vita da brutta zitella), la giuria decide di non farla vincere: lei si è poi ripresa il posto che meritava esibendosi in ogni dove ed avendo un enorme successo internazionale.
E’ per questi artisti o il ritorno di chi faceva parte di un’altra epoca musicale, nella quale il rock, il pop, il metal, il blues convivevano senza bisogno di prevalere l’una sull’altra, che il mio iubelo, dolce gaudio,/ch’è’ drento ne la mente!/Lo cor deventa savio,/celar so convenente;/non pò esser sofferente/che non faccia clamore.
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